Lo ‘Spazio esistenziale’ a Casa Morra, è un capolavoro sconosciuto.
Quello spazio esistenziale che la mia amica Lucrezia Longobardi ha congegnato per la curatela si è dichiarato, balzachianamente, un ‘capolavoro sconosciuto’. Il discorso sulle opere è precipitato come la sostanza tangibile di una operazione alchemica. L’apparente sparizione dell’oggetto e la sua diffusione nel vivibile, corrispondono all’incarnazione nella curatrice-teste. Frenhofer nel racconto di Honoré de Balzac è Lucrezia che mi nasconde il capolavoro nell’angolo più intimo della sua esistenza. Mentre io, Poussin, mi accingo alla sua ricerca.
È un concetto di arte vivente il suo, di spazio perfettamente intellegibile e performativo, quello di un suprematismo bianco, maleviciano oltre il white-cube. Mi ricorda l’integerrima metodologia della gallerista Christian Stein, nella sua casa l’arredo era inconcepibile e iniziava la zona grigia di ambiguità tra vita e opere d’arte.
L’antiquariato dell’armadio a specchio nasconde le armature, i vestiti, che la mia amica indossa quotidie. Il suo vetro riflette nella porta l’immagine di noi, mimetica e speculare. Sono gli infallibili meccanismi difensivi del femminino, dell’inaccessibile archivio e dell’irriconoscibile soprabito nelle sculture di Liz Magor. Gli oggetti d’archivio e le finzioni sceniche sono immerse nel silicone, l’elemento plastico in una chirurgia estetica. Nella stessa sala un paio delle corna di Berlinde de Bruyckere sono appese al muro e consegnano all’eternità l’amputazione di una forma animale. Ed è Lucrezia a rivendicarne la loro radice encefalica.
All’opening della mostra “Lo spazio esistenziale”, a Casa Morra, Lucrezia era a letto. Guardando le fotografie credetti che fosse stata stanca per il troppo lavoro e che si fosse addormentata durante il vernissage. Invece era una performance, anche quella troppo radicale, poiché il suo inconscio si era riversato nello spazio intorno a lei sognante, permettendo al pubblico di visitarlo.
La fotografia di Luigi Ghirri a fianco del letto dove lei dormiva rappresenta un interno da sogno, stampato in proporzioni irreali su un manifesto. Quello stesso manifesto nella fotografia è affrancato sulla facciata di un rudere di campagna. Sembrava un collage e invece era una unica fotografia dove l’illusione di una cucina era dipanatasi all’esterno del fabbricato, come in un’opera di Gordon Matta Clark.
In fondo a una fuga prospettica, tra le mura che si stringono nella stessa stanzina da letto, su un basso piedistallo c’era una misteriosa campana di vetro che ho subito riconosciuto come un’opera di Helene Fauquet. In passato il gallerista Corrado Folinea mi aveva spiegato che in quelle opere la specchiatura era andata a male, per cui il riflesso dello spazio risulta in una coltre grigia dove ogni cosa è indistinguibile. Qui la protezione della campana con il fallimento della trasparenza e del rispecchiamento, sono la critica di quella precaria struttura che l’individuo crea intorno a sè nel concetto di un’identità. Dove l’essere è colto in un nascondimento. Tra la stanza da letto e la successiva è teso il cavo di una delle ultime opere di Vettor Pisani. Una bambola appesa per la gamba sta insieme a una ruota duchampiana. Entrambi gli oggetti sono attaccati insieme alla corda sospesa in longitudine fino al fondo dell’ultima stanza, che è un white cube. Spicca un orologio che segna con lunghe lancette l’inesorabile trapassamento dei minuti e delle ore. Una finestra con i vetri opachi resta chiusa e proietta una luce diffusa, con pure le luci al neon sulla volta. Eravamo nel mondo dell’altrove, che si regge con la tensione del cappio al mondo del sogno, per la parete di sguincio nella camera da letto.
L’opera di Vettor Pisani è arpionata all’ultima parete nel suo baricentro. Tende un filo, una energia elastica che passa attraverso l’ingresso dell’ultima camera, collegando questo mondo con l’altro ed evitandone l’implosione per collasso.
Siamo rimasti a parlare per un po’, tra la cartografia acquatica di Flavio Favelli e i gessi di Rachel Whiteread. Sul tavolo c’erano dei fiori in un vaso di cristallo con l’acqua e dei cioccolatini nelle ceramiche. Il loop nel tubo catodico trasmetteva l’opera “Foolish Things” di Roberto Cuoghi. Gli elementi si succedevano immaginari o reali, e intanto le onde del mare nello schermo riflettevano un falso sole. Si alternavano l’alba e il tramonto allo stesso punto dell’orizzonte nel televisore.
Per via dell’espansione del medium video, io credo, viviamo un ritorno all’oralità. Questo accade dall’inizio del nuovo millennio al punto che il teatro si è risignificato, in ragione della attuale cultura dell’immagine. Lucrezia mi ha letto a viva voce i titoli di alcuni libri dall’apparato bibliografico della mostra, che lì era fisico e consultabile, un immediato accesso alla directory dei riferimenti letterari. Quella bibliografia concreta esprime fluidità, è qualcosa di estremamente diverso e pure profondamente affine nello spirito al ‘catalogo attivo’ della Biennale di Venezia, dove gli operatori di sala guidano alla lettura delle opere come si consulterebbe un oracolo.
Vi allego i consigli di lettura, tre dei volumi sulle mensole in marmo della cristalliera: Mille Piani di Deleuze e Guattari, Essere e Tempo di Martin Heidegger e i romanzi di Anna Maria Ortese.
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